Trasferirsi fuori dall’Italia è una scelta che può nascere dalle più svariate ragioni. Una formazione o un corso di studi, un posto di lavoro, la ricerca di una vita diversa, il desiderio di allontanarsi da una situazione che non piace, la voglia di scoprire o provare qualcosa di nuovo, l’esigenza di imparare una lingua, avvicinarsi a una persona che vive fuori dall’Italia o seguire il partner che si è trasferito.
Possiamo vivere quello che ci ha portati a prendere questa decisione in maniera più o meno piacevole. Possiamo dargli il valore di un desiderio che si è concretizzato o piuttosto considerarlo nella direzione di una necessità che avremmo sperato di non trovarci ad avere.
Anche quando l’abbiamo vissuto come l’ultima cosa al mondo che mai avremmo pensato di fare e forse questa scelta non ci entusiasma, pian piano, almeno una parte di noi farà comunque suoi dei modi di vivere o di pensare, certe abitudini o alcuni sapori del nuovo Paese. Viceversa, anche se la vita all’estero ci piace incredibilmente e ci mescoliamo con entusiasmo alle persone che popolano il nostro nuovo mondo, portiamo sempre dentro di noi degli aspetti della vita di prima, che a volte mancano terribilmente e ci sembrano insostituibili.
Forse chi vive nella Grande Mela non sentirà la mancanza di una buona margherita, che troverà facilmente in una delle numerose pizzerie italiane; cosa che invece rimpiangerà più facilmente chi si è trasferito, ad esempio, in Thailandia. Ma probabilmente, quando inizia l’estate, l’italiano a New York pagherebbe per sentire il profumo della macchia mediterranea mentre la domenica si avventura in una delle seppur belle spiagge del New Jersey, mentre sui litorali paradisiaci tailandesi questa mancanza sarà avvertita molto meno, forse per nulla.
Tempo fa, un amico che si era trasferito per lavoro in un altro continente ed era straordinariamente contento della nuova posizione lavorativa, dei colleghi, del suo capo, certamente del più sostanzioso stipendio e anche dei nuovi legami creati, mi disse che non passava venerdì in cui non gli mancasse l’aperitivo in compagnia al momento dell’uscita dall’ufficio. Una piccola abitudine, che però significava molto per lui. Una sorta di tradizione che aveva racchiusi in sé grandi significati: l’aggregazione, il tempo per svagarsi e stare bene, la compagnia, le risate e i sapori che amava. Ogni venerdì ne sentiva la mancanza e quando per le vacanze rientrava nella sua città, recuperava un po’ di quegli aperitivi persi e cercava di passare più tempo possibile con i vecchi amici. Alla fine delle vacanze se ne tornava in quella che era ormai la sua nuova casa, portando con sé una certa dose malinconia per quello che lasciava e non liberandosi mai completamente dalla nostalgia, ma sapendo anche che non avrebbe avuto voglia di tornare in Italia, se non per quelle sempre bellissime vacanze.
Come lui, tanti altri espatriati vivono sentendosi perennemente “divisi” tra il prima e l’ora. Tra il mondo là e il mondo qui, dove il “là” e il “qui” si mescolano e la parola “casa” può finire con l’appartenere ad entrambi i luoghi. Tuttavia, a volte non è semplice conciliare le cose e così la condizione di expat porta spesso con sé degli importanti interrogativi su quale luogo rappresenti “davvero” casa. Quello dei posti familiari, degli amici di sempre, dei profumi e dei colori o dei modi di dire che sono parte di sé in maniera talmente abituale da darli per scontati finché non si è lontani? Oppure è più casa quella della vita di tutti i giorni, dell’università o del lavoro, delle nuove relazioni recenti, ma magari quotidiane e cariche di freschi stimoli?
A tali quesiti mi sento di rispondere con un’altra domanda: chi lo dice che ciò che viviamo come “casa” debba essere rappresentato da un solo luogo? Una persona può sentirsi a casa tra gli amici rimasti in Italia e con cui magari riesce a passare del tempo per un breve periodo all’anno, o a volte anche meno frequentemente, ma con cui ogni volta sembra non siano passate più di un paio di settimane e con cui basta mezz’ora trascorsa insieme per ritrovare la solita intesa. Eppure quella stessa persona può sentirsi a casa anche i mezzo ai nuovi amici, italiani e non, con cui condivide gioie e dolori della propria quotidianità, con cui si organizza per andare a cena fuori, per vedere una mostra, per fare una passeggiata e scoprire insieme posti ancora sconosciuti del luogo in cui vive ora. Entrambe queste esperienze permettono di vivere un senso di appartenenza e familiarità. Sono sensazioni diverse fra loro, ma non per questo una è più “vera” o più intensa dell’altra. Sono semplicemente diverse. Entrambe reali ed entrambe importanti.
Forse, a volte, per qualcuno, chiamare casa la nuova città all’estero può sembrare una sorta di “tradimento” nei confronti dei posti e delle persone tanto amati in Italia. O, al contrario, per chi è scappato dal Bel Paese con la voglia di costruirsi una vita altrove, ripensare a quanto lasciato in Italia con la sensazione nostalgica dell’appartenenza, può apparire inconciliabile con la voglia che al contempo sussiste di non viverci più.
Si può però cominciare a considerare l’idea che i due vissuti non debbano escludersi a vicenda. Si può non essere contenti dell’Italia per alcuni suoi aspetti e magari non volerci più vivere, ma al contempo sentirsi molto legati ad altre cose e alle persone importanti rimaste. Oppure, pur continuando ad amare i propri luoghi di origine e a mantenere un rapporto speciale con la famiglia e gli amici, contemporaneamente si può innamorarsi della città in cui ci si è trasferiti, per le sue particolarità e le nuove relazioni lì costruite.
Darsi la possibilità di appartenere ad entrambi i “mondi”, invece che scegliere quale è più importante, anche se non sempre e non subito facile, è un passaggio rilevante nel processo che porta a far convivere in armonia la persona “di prima” con quella “di ora” o il “me stesso italiano” con il “me stesso cittadino del mondo”.
Non considerarlo quindi come un tradimento ma, anzi, come un regalo da fare a se stessi per godere appieno di quello che è rimasto in Italia, al contempo di quello che c’è nel posto in cui si vive e soprattutto della persona che si è diventati.
Sara Fornari
Psicologa e Psicoterapeuta