Il narcisismo patologico è sulla bocca di tutti. Se ne parla tantissimo: sui social e nelle tavole rotonde dei congressi. Qualcuno direbbe che è la condizione dei nostri tempi, che siamo tutti un po’ narcisisti e che la società del selfie non farebbe altro che incentivare la ricerca dell’amor proprio a discapito dell’altruismo e della collaborazione reciproca. In pratica, sempre secondo alcuni, saremmo tutti un po’ più egoisti e impegnati a colmare un bisogno di ammirazione che non è mai abbastanza.
Stando a quello che gira in rete, se guardiamo più da vicino, sembra che ormai da anni sia in atto una vera e propria “emergenza narcisista patologico”. Orde di provetti Machiavelli starebbero infestando le nostre città, turbando i sonni di migliaia di donne (avrei potuto aggiungere “e di uomini”, ma lo stereotipo vuole che i narcisisti patologici siano esclusivamente maschi), vittime innocenti di personalità oscure e maligne, che non farebbero altro che tramare alle loro spalle e ordire le più svariate trappole per catturare le sventurate prede.
Ok, ok, ok. Forse mi sono fatto prendere un po’ troppo la mano, e la mia vena narrativa si è impossessata per un attimo delle dita con cui digito sulla tastiera del computer. Tuttavia, questa iperbole non si allontana così tanto dal modo in cui il profilo del narcisista patologico viene spesso descritto su internet. Se provate a cercare “narcisista patologico” su Google, oltre ad alcuni articoli di settore, vi spunteranno anche alcuni suggerimenti di ricerca.
Ecco alcuni tra quelli che mi hanno colpito di più:
“come bacia un narcisista, cosa si nasconde dietro il narcisista, cosa eccita un narcisista, come riconoscere un narcisista a letto, come fregare un narcisista, cosa succede se si ignora un narcisista, cosa pensa il narcisista durante il silenzio, come ribaltare la situazione con un narcisista, quando il narcisista perde la preda, come distaccarsi da un narcisista, come farsi desiderare da un uomo narcisista, come ferire/punire un narcisista”.
Nel leggere queste domande, e le risposte associate, ho avuto la sensazione che si stesse tratteggiando un profilo di una persona losca, ingannevole, misteriosa, maligna, desiderata ma allo stesso tempo temuta, e soprattutto sconosciuta. Il narcisista, stando a questi contenuti, non è immediatamente riconoscibile, ma si nasconde intenzionalmente per colpire con cattiveria e sadismo. Tuttavia, se si fa molta attenzione ai segnali che lascia, si potrebbe riuscire a decriptarli e usarli a proprio vantaggio, ritorcendoli contro il narcisista stesso. Adesso, vi sembra così strampalata la mia ricostruzione iniziale?
Siamo tutti narcisisti patologici?
A questo punto potremmo avere la tentazione di chiederci quanto tutta questa descrizione sia effettivamente attinente al mondo del narcisismo patologico. Se vi siano delle affinità o delle somiglianze, o se addirittura se non ce ne siano affatto.
Quello che in realtà vorrei fare in questo articolo non è assecondarla, quella tentazione: mi porterebbe a proporvi l’ennesimo contributo del tipo “Chi è davvero il narcisista patologico?”, oppure “I 5 segnali per capire se davanti hai un narcisista”. Il web è fin troppo saturo di questi contenuti. Quello che invece mi piacerebbe fare è porre l’accento sul perché abbiamo così tanto bisogno di utilizzare questa etichetta. A cosa ci serva. Chiedermi come mai questa diagnosi abbia avuto così tanta presa, al punto da diventare quasi mainstream ed entrare a gamba tesa tra gli argomenti di conversazione anche tra degli amici a cena – senza che necessariamente siano psicoterapeuti. Chiariamoci: non è un male di per sé che un tema a carattere psy faccia capolino nel pubblico comune, anzi. Semmai, come suggerisco nel titolo dell’articolo, il punto è come se ne parla. E cosa ci dice di noi che ne parliamo, più che del narcisismo in senso stretto.
La mia impressione è che l’etichetta di “narcisista patologico” venga utilizzata così spesso da perdere quasi di senso. Dire a qualcuno che è un narcisista si avvicina sempre di più ad un modo per insultarlo, per svilirlo o denigrarlo. È un appellativo volendo più raffinato del più semplice “Stronzo!”, ma il concetto di fondo spesso ci si avvicina, anche se magari fa fare bella figura a tavola! Ciò non toglie, a volte, che si riesca comunque a intravedere il risentimento, la rabbia, la delusione, in chi lo usa così. In un tentativo che vuole essere, a mio modo di vedere, di prendere le distanze da quella persona bollata come narcisista o da quella relazione – che quelli bravi non esiterebbero a chiamare “tossica”. Appiccicare un’etichetta, una diagnosi, in questo caso, mi sembra più un modo per provare a distaccarsi, a guardare dall’alto una situazione magari molto difficile, nella misura in cui ci ha fatto provare delle emozioni molto forti o che ci ha particolarmente coinvolto, soprattutto se in negativo. Un appellativo dunque utilizzato allo scopo di prendere fiato. Per cercare di limitare la propria sofferenza. Per concentrare quanto di negativo si è vissuto in quella relazione, metterlo in una scatola e cercare di gettarla al vento, nella speranza che non ci tocchi mai più.
Perché i narcisisti patologici sono sempre gli altri?
Le immagini che vengono tratteggiate all’interno di questo quadro del “narcisismo patologico” sembrano volerci dare un messaggio molto chiaro: che esiste un cattivo, che è totalmente e inequivocabilmente cattivo, che è talmente cattivo da volersi nascondere dietro a delle apparenze benevole per poter trarre in inganno il prossimo. Sembra cioè qualcuno a cui si cerca di dare interamente la responsabilità di un accaduto. C’è da dire che, anche se in certi casi specifici la responsabilità si può facilmente – e giustamente volendo – attribuire ad una soltanto delle parti in causa, molto più spesso non è affatto così semplice capire chi ha fatto cosa: la situazione può essere molto più sfumata. Senza poi considerare che non è affatto compito dello psicoterapeuta stabilire le colpe: non è un giudice, e la stanza della terapia non è un tribunale dove si assolve o si condanna qualcuno.
Come mai abbiamo così tanto bisogno di trovare un cattivo a cui dare sempre e comunque tutta la colpa, che sarà esclusivamente colpevole, nonostante le sue azioni possano dirci anche altro – e possano rappresentarci una costellazione di vissuti e difficoltà altrettanto degne di attenzione? A mio avviso, la ragione è che se riesco a tratteggiare solamente caratteristiche negative di quella persona, allora sarà per me più facile cercare di prenderne le distanze emotivamente. Cercare di allontanare da me tutti quegli aspetti che invece mi avevano attratto di quella persona, che per me rendevano importante e significativa quella relazione, mi renderà più semplice il provare a metterci una pezza e voltare pagina. In realtà, dire che anche i cosiddetti “narcisisti patologici” possono stare male per come vivono le relazioni, non implica in nessun modo negare la sofferenza, ad esempio, delle persone che con loro hanno avuto un legame sentimentale – e che solitamente sono le prime a balzarci agli occhi per la sofferenza che hanno provato. Anzi: tenere presente che esistono tutti questi livelli, ci aiuta a capire meglio le diverse sfumature di una relazione, senza per questo cancellare responsabilità laddove ce ne siano.
Una conclusione possibile: il vuoto e il bisogno di comprensione
Arrivati alla fine di questo articolo, potremmo provare a mettere insieme i pezzi e trarre qualche conclusione. In altri termini, cosa dice di noi questo modo di raccontare alcune persone e relazioni?
Penso che parli molto di chi cerca delle risposte, magari ad un dolore molto forte. Forse racconta di un’esigenza, talvolta urgente, di trovare una spiegazione più o meno plausibile al perché siano accadute certe cose. Al perché si sia stati o state così male. Al perché l’altro si sia comportato in un certo modo piuttosto che un altro, deludendo aspettative, speranze, bisogni. Al perché ci siamo sentiti così umiliati o disprezzati, chiedendosi se si sia fatto qualcosa di male per meritarsi tutto questo. E questi interrogativi possono davvero fare molto male, nella misura in cui il rischio è anche quello di addossarsi la colpa del comportamento altrui. Rischiando di pensare che in fondo se la si è cercata, che l’altro non poteva che fare così, trattandoci male.
Se dunque questo è il vissuto in cui molti possono incappare, può essere comprensibile il tentativo di allontanarlo da sé, anche addossando interamente la responsabilità all’altro. In un tentativo, parafrasando quello che molti potrebbero pensare, di dirsi che “io non ho niente a che fare con quella persona, non mi riguarda più, io non sono quella roba lì”. Tuttavia, dare tutta la colpa a se stessi o all’altro spesso non aiuta ad elaborare quanto accaduto. Magari può dare un po’ di sollievo a breve termine, ma sul lungo periodo è probabile che quegli interrogativi ritornino, innescando un circolo vizioso che può essere molto logorante emotivamente.
Ecco perché può essere utile rivolgersi ad un professionista in questi casi: perché possa aiutare a cambiare prospettiva su di sé, a farsi domande diverse, che prevedano risposte non così colpevolizzanti verso se stessi o se stesse. Domande per comprendere le difficoltà ad allontanarsi da una relazione in cui ci si sentiva umiliati o umiliate, disprezzati o disprezzate – non è affatto facile dire “Basta!”, come certa retorica vorrebbe trasmettere. Per capire come mai quella relazione continuava ad essere importante nonostante comportasse un prezzo emotivamente molto alto. Per dare un senso diverso ad una sofferenza spesso molto forte, che possa aiutare a ripartire facendo delle nuove scelte, basate su delle nuove consapevolezze su di sé. Infine, rivolgersi ad un professionista può servire in generale a chi si sente in difficoltà dentro le relazioni intime. Magari il narcisismo c’entra, magari no. L’importante è che si parli di te.
Stefano Giusti
Psicologo e Psicoterapeuta