Prima di tutto distinguiamo il significato dei termini “sesso” e “genere” che spesso vengono confusi e interpretati in modo erroneo. Quando si utilizza il termine “sesso” si fa riferimento alle caratteristiche biologiche e anatomiche degli individui, quindi a quell’insieme di caratteri sessuali che identificano una persona fisicamente come maschio o come femmina. Con il termine “genere” si indicano invece i tratti sociali e culturali che qualificano il comportamento e i ruoli di una persona all’interno di un determinato ambiente culturale. L’identità di genere si sviluppa nell’essere umano in modo graduale. Alla nascita si è riconosciuti come appartenenti a una delle due categorie e si è in genere influenzati sin da subito dalla società ad attuare determinati comportamenti (gli studi sull’interazione madre-bambino rivelano differenze di trattamento dei figli maschi dalle figlie femmine, anche quando i genitori credono di avere le stesse reazioni nei confronti di entrambi).
Nella mente di molti è ormai presente il mito dei paesi nordici come “fari della civiltà” rispetto l’origine della ideologia della parità di genere: un’ideologia che si è ormai radicata nella società fino a rendere indistinti i ruoli maschili e femminili.
Tutto questo è frutto della “gender equality”, basata su più di 50 anni di femminismo di cui studiosi e politici nordici sono stati i principali promotori. Basta guardare, per esempio, le Organizzazioni non governative (Ong) e le istituzioni per lo sviluppo svedesi: sono state tra le prime a collegare il ruolo della donna allo sviluppo internazionale e, da allora, a incorporare le politiche per la parità di genere negli interventi sul campo.
Il punto di partenza di queste politiche è la tesi secondo la quale i “gender roles” (ruoli di genere) vanno cambiati per liberare le donne da quell’insieme di condizionamenti psicologici e culturali collegati al loro essere donne. In questo modo potranno godere di una vera e propria uguaglianza rispetto agli uomini. È questo quello che si è cercato di fare in Norvegia negli ultimi decenni, attraverso una serie di politiche e piani d’azione. Dal punto di vista normativo donne e uomini sono ormai liberi di agire in maniera completamente uguale.
Diversi studi, però, hanno messo in luce il “Norwegian gender paradox”, il paradosso norvegese del gender: le donne continuerebbero a scegliere professioni tradizionalmente viste come “femminili” e gli uomini quelle tradizionalmente “maschili”.
Com’è possibile? Il comico e sociologo norvegese Harald Eia ha cercato di approfondire la questione attraverso un documentario mandato in onda nel 2010. Eia si è rivolto agli studiosi del gender norvegesi e attraverso una serie di interviste, ha chiesto agli studiosi le ragioni per cui donne e uomini dovrebbero essere uguali e come mai nonostante tutti gli sforzi, i comportamenti dei due sessi non rispecchino l’uguaglianza tanto cercata. Gli studiosi sostenevano che le donne e gli uomini sono, alla fine, ben diversi tra di loro e che questo fatto viene rispecchiato dai loro comportamenti. Nonostante ci siano stati dibattiti su come sia stato “usato” il lavoro di Eia nelle politiche di genere, il documentario apre una domanda importante riguardo alla “gender theory”.
Alla luce di questa puntualizzazione tra la differenza esistente tra uomini e donne, non potrebbe essere proprio questa diversità a costituire il vero punto di partenza per difendere e rispettare la dignità della donna? Non è forse più importante parlare di uguaglianza dei diritti più che del genere e quindi della possibilità di scelta?
Ilena Sardone
Psicologa e Psicoterapeuta