Vorrei parlarvi di uno degli aspetti della maternità, probabilmente meno raccontato, perché meno accettato socialmente, un aspetto che probabilmente molte mamme pensano di non potersi permettere, ma che invece accomuna tante donne: il senso di smarrimento della propria femminilità e della propria vita che accompagna i mesi successivi alla nascita di un figlio, riportato spesso con la frase “Non ho più una vita”.
Difficile da condividere perché porta spesso con sé sensi di colpa: desiderare di essere ancora donna, voler prendersi cura di sé stesse, pensando che questo vada a scapito del tempo passato coi propri figli.
La maternità, intesa dal momento del concepimento, porta nella vita della donna tanti cambiamenti.
Ad alcune donne capita di sognarla da tutta la vita, ad altre accade di sentirne la voglia solo in alcuni momenti, per altre ancora la maternità arriva nel momento in cui meno l’avrebbero desiderata. Ad ogni modo, la donna che aspetta un bambino comincia ad immaginare cosa accadrà al proprio corpo, alla propria vita, al rapporto col partner, col figlio e con gli altri.
Spesso verranno stravolte abitudini, routine create fino a quel momento. I mesi dell’attesa possono essere vissuti con sentimenti che vanno dalla gioia alla paura, dall’ansia di non sapere cosa ci sarà dopo, al domandarsi se si sarà o meno delle buone madri.
A volte ci sono cambiamenti che le donne prevedono meno, che hanno a che fare con le persone che ruotano intorno alla loro vita: se per nove lunghi mesi saranno probabilmente al centro dell’attenzione, coccolate e protette da tutti, d’improvviso, dopo la nascita, il fulcro centrale delle attenzioni di tutti potrebbe diventare il bambino. Dimenticando, talvolta, che oltre ad un neonato bisognoso di cure, c’è una neomamma che va accompagnata e sostenuta in un mondo pieno di nuove esperienze.
Sono molto diverse le storie che ho sentito raccontare dalle donne in attesa di un figlio, ma c’è qualcosa che accomuna la maggior parte di loro: la sensazione di un netto prima e dopo, un cambiamento grosso nelle loro vite, sancito dal momento della nascita.
Ma cosa succede alla donna quando un figlio viene al mondo?
Se si pensa alla parola mamma, probabilmente a molti verranno in mente una serie di caratteristiche solitamente attribuite a quel ruolo: la cura, l’accudimento, l’amore incondizionato, il mettere sempre i figli sopra ogni cosa. Il diritto di essere chiamata mamma, si accompagna ad una serie di doveri che la società solitamente attribuisce ad essa: il resettare completamente la lista delle priorità, il mettersi sempre al secondo posto.
La nascita di un figlio può rappresentare un conquista? Si, per molte probabilmente lo è. Ma possiamo pensare che per alcune donne ci possano essere anche delle perdite? Io penso di si, anche se affermarlo è forse un po’ impopolare.
Ci sono donne che, una volta diventate madri, sentono di perdere il diritto ad essere donne, come se un ruolo dovesse escludere l’altro. Perdono quelle attenzioni dedicatele da altri, ma soprattutto perdono le attenzioni che fin ora hanno dedicato a sé stesse.
Si è spesso portate a pensare che se si dedica tempo a sé stesse, i figli vengano automaticamente privati di quel tempo prezioso. Allora si sceglie di mettere da parte ciò che prima rientrava nella dimensione del divertirsi, del fare qualcosa solo per sé stesse, come banalmente andare dal parrucchiere, piuttosto che a cena col partner, perché il tempo, assolutamente tutto, va dedicato allo stare insieme ai figli.
Quando però si apre la porta di quelle case, a volte si raccontano storie diverse. Conosciamo madri stanche e annoiate, che si sentono svuotate, private di una vita che ormai ricordano a mala pena, donne che vorrebbero poter tenere insieme l’essere madri a tanto altro, ma che sentono di non poterselo permettere; sentono che non è giusto desiderare qualcosa che non comprenda lo stare sempre con i figli. Talvolta questo finisce per influenzare il rapporto con loro, sentendosi sempre arrabbiate, con tanto peso e fatica sulle spalle, con l’effetto di essere solo presenti fisicamente e non stare davvero in relazione con loro.
Se consideriamo solo un aspetto della vita di una persona, anche se importante, come se fosse l’unica ragione della sua vita, da una parte quella persona potrebbe sentirsi piena e riconosciuta quando va tutto bene, dall’altra potrebbe correre il grosso rischio di rimanere colpita quando qualcosa, magari anche piccola, si incrina, quando qualcosa va diversamente da come si aspettava. Credo che considerare la maternità come l’unica ragione di vita della donna possa portare con sé questo rischio elevato: il rischio di ritrovarsi ferite e svuotate quando qualcosa va male, ad esempio quando i figli criticano, deludono, quando andranno via.
Chi l’ha detto che la maternità debba escludere l’esigenza di sentirsi donna, di trovare del tempo per fare quello che si faceva anche prima? È inevitabile che cambino molte cose e che il tempo a disposizione possa essere gestito in modo diverso, ma questo non dovrebbe necessariamente implicare l’esprimere sé stesse attraverso un solo ruolo, perché prima o poi ci si potrebbe sentire molto scomodi.
Cultura comune vuole che si debba essere felici quando si è mamme, sempre e incondizionatamente, e che qualunque problema sopraggiunga, basti pensare ai figli per sentirsi meglio. A volte, per qualcuna, questo può essere vero, ma non sempre. A volte non basta.
Se per un attimo si provasse a sospendere i pregiudizi e i giudizi di chi ci circonda, forse si potrebbe prendere consapevolezza di aver bisogno di più cose, di più spazi, di avere una vita piena e articolata in modi diversi. Di poter essere mamme, donne in carriera, figlie, sorelle, amiche, compagne, mogli.
Se si riuscisse ad essere molte cose, forse si troverebbe soddisfazione e serenità in più cose, e ci si dedicherebbe meglio a quello che in quel momento si è e si fa.
Forse le donne andrebbero maggiormente sostenute durante il periodo perinatale, preparate ad affrontare le difficoltà e le gioie che arriveranno, legittimando loro anche una possibile sofferenza, un disagio al quale potrebbero andare incontro. Non che questo debba necessariamente avvenire, ma senza che nessuno le obblighi ad essere sempre e per forza felici.
Dovrebbero essere accompagnate e incoraggiate a costruire un ponte, un passaggio tra l’essere donne e l’essere mamme, tra la vita di prima e quella di dopo.
La persona tende alla continuità della propria identità, al proseguimento naturale del corso della propria storia: più il cambiamento è graduale, più lo integra nel senso che ha sempre dato alla vita, e più facile sarà accomodarsi in quella nuova vita, portando in essa qualcosa in più, che dà un senso nuovo, diverso, forse migliore, ma che non può prescindere da quello che è stata fino ad allora.
Un ponte che addolcisce il passaggio tra un prima e un dopo, che rimane aperto e percorribile tutte le volte che lo si desidera, per sentirsi più donne, più mamme, più tutto…
Claudia Terranova – Psicologa Psicoterapeuta