No, la sindrome dell’impostore non è una di quelle da manuale diagnostico. Lì non la troverete! “Da manuale”, però, potrebbe essere il costante dubbio di imbrogliare di chi si sente un impostore, così come la conseguente paura di essere smascherato.
Questa etichetta, nata alla fine degli anni Settanta, descrive una mancanza di fiducia in se stessi sul lavoro, tale per cui, chi la vive, non crede di meritare i propri successi. Prevale piuttosto la convinzione di ingannare e il timore che prima o poi gli altri scoprano che tutta questa presunta bravura non esiste davvero. E non sembra esserci prova che possa smentire queste sensazioni di inadeguatezza e incompetenza.
Nonostante il passare del tempo, l’evolversi delle competenze e il miglioramento delle posizioni lavorative, i successi non sono quasi percepiti e sembra impossibile interiorizzarli o gioirne. E, per la paura che venga a galla la propria incompetenza, cioè che anche gli altri alla fine se ne accorgano, si cerca di compensare con un perfezionismo sfiancante, non sentendosi però comunque mai all’altezza… ma all’altezza di cosa?!
Addentrandoci in situazioni di vita reale, proveremo a mettere in luce alcuni processi psicologici coinvolti in questa “sindrome”, fino a proporre degli spunti utili per alleggerirci dalla sensazione di non essere all’altezza e di imbrogliare.
“È stata solo fortuna!”
Giorgio, 25 anni, neolaureato. Termina gli studi in sei anni e si dedica immediatamente alla ricerca di un lavoro. È convinto che ci vorrà del tempo, come per tanti suoi amici. Eppure, per lui va diversamente: dopo una serie di colloqui con una grande azienda, alla fine viene assunto. Ma non riesce a godersi il momento. Oscilla tra l’idea che sia stata “solo fortuna” e l’idea che, sempre grazie alla sorte favorevole, non ci fossero altri candidati. Insomma, per Giorgio non sembra proprio esserci lo spazio di potersi sentire soddisfatto di sé e festeggiare questo primo traguardo lavorativo.
“Non sono all’altezza…”
Lucrezia, 33 anni, laureata in Matematica, un dottorato terminato e alle prese con il suo secondo lavoro. Da quando muove i primi passi nel mondo del lavoro, riceve svariati feedback positivi, che però non sembrano sedimentarsi in lei. I colleghi la stimano per le sue competenze, si fidano e spesso si affidano a lei, così come il capo, che la coinvolge nel prendere alcune decisioni importanti. Sembra una condizione di cui essere fiera, ma lei pensa che gli altri si siano sbagliati e, mentre i successi le scivolano addosso, anche il più piccolo errore o la più piccola mancanza sembrano prove di non essere abbastanza competente.
“Non me lo merito!”
Tommaso, 48 anni, ricopre un ruolo manageriale da quando ne ha 38. Tuttora, non si sente comodo nei panni del dirigente. Agli occhi di familiari, amici e colleghi, è un uomo di successo, eppure lui non riesce a sentirsi tale. Non si sente degno degli apprezzamenti ricevuti, dei riconoscimenti e, tanto meno, della posizione lavorativa raggiunta. Lavora tanto e con estremo perfezionismo perché reputa questo metodo indispensabile per evitare di essere smascherato: “devo essere impeccabile, altrimenti si accorgeranno che non valgo così tanto”. Così facendo, però, alimenta delle aspettative su se stesso che non potrà mai realizzare appieno, in quanto la perfezione (fortunatamente, ndr) non è di questo mondo, creando un circolo vizioso potenzialmente senza fine.
Non è solo una questione di lavoro
Come potete intuire, sono svariati i successi personali, piccoli o grandi, passeggeri o duraturi, che possono innescare in noi dubbi e paure come quelle sopra descritte. Credere che gli altri si stiano sbagliando sul nostro conto o pensare di non meritare un traguardo ottenuto, non riguardano infatti solo il mondo del lavoro. Ad essere coinvolta è la fiducia in noi stessi, che possiamo mettere in dubbio in tanti altri ambiti importanti della nostra vita. Pensiamo, ad esempio, ad un genitore che non riesce a riconoscersi il merito di aver costruito una bella famiglia, ad una persona che non pensa di meritare l’amore del partner o ad uno sportivo che, di fronte ai propri successi, sposta sempre i riflettori da se stesso al team, a fantomatiche condizioni favorevoli o alla fortuna. Questo meccanismo porta con sé mille dubbi sul fatto che il riconoscimento che riceviamo sia frutto di un grande bluff. Ma tutti questi interrogativi rischiano di farci vivere come se il freno a mano della nostra vita fosse sempre tirato.
Proviamo a sgretolare insieme questi dubbi
Vi invitiamo a sostituire i soliti interrogativi proponendovi altri tipi di domande, così come possibili risposte, per alleggerirvi dal peso di non essere mai abbastanza.
1) Sul lavoro:
se cominciassi a pensare che la mia carriera non sia solo dettata dalla fortuna, ma che sia una combinazione di impegno, tempismo e qualità, smetterei di sentire la pressione di dimostrare qualcosa?
Forse sì, perché potrei scoprire che magari non è necessario essere sempre in competizione, con me e con gli altri, per dimostrare qualcosa.. ma che sono io, nel mio speciale mix (che si combina anche con un po’ di fortuna), ad avere valore.
2) In famiglia:
Se lasciassi andare la convinzione di dover essere una mamma o un papà perfetta/o, che cosa potrei ottenere?
​​Magari potrei scoprire che, rinunciando ad aspirare ad una perfezione (peraltro impossibile da raggiungere), avrei più tempo a disposizione per godermi i momenti con mio figlio e questo potrebbe essere così bello da farmi “dimenticare” l’idea di “dover” migliorare.
3) In amore:
cosa succederebbe se mi staccassi dall’idea che sono così fortunato/a per il fatto che il mio (o la mia) partner sia “incappato/a” proprio in me e che io debba dare sempre il meglio per tenermelo/a stretto/a?
Potrei rendermi conto che lui/lei ha scelto proprio me perché vuole stare proprio con me, con tutto quello che il “pacchetto-me” comporta: le mie risorse, il mio modo di fare, le mie qualità e, sì, anche i miei difetti e i miei punti deboli.
4) Nello sport:
se pensassi che essere un campione sportivo non sia sinonimo di essere invincibile, cambierebbe qualcosa nel mio modo di affrontare gli allenamenti e le competizioni?
Probabilmente sì. Potrei, giustamente, gioire per i miei successi, così come accettare le mie “giornate no” e la mia stanchezza senza sentirmi “un fallimento”. Potrei avvicinarmi all’idea che tutte le prestazioni, da quelle migliori a quelle peggiori, siano il prodotto di tanti fattori che si mescolano e rimescolano tra loro: impegno, talento, collaborazione, coincidenze. Potrei continuare a sentirmi un campione anche quando non sono sul gradino più alto del podio.
Non esistono vite perfette, prestazioni perfette, genitori che non sbagliano e partner impeccabili. Esistiamo noi come risultato delle nostre esperienze, delle nostre prove e dei nostri errori, della fortuna così come del nostro talento, della voglia di rischiare e dell’altrettanto lecita voglia di non osare. Noi che possiamo decidere in ogni momento quale marcia inserire, che possiamo accelerare e rallentare. Noi che, se ci preoccupassimo meno di mostrare e cercare una presunta perfezione, forse ci godremmo di più il nostro viaggio.
E se le domande si facessero più insistenti, potreste sempre sciogliere i dubbi nella stanza della terapia!
In collaborazione con
Stefania Bossetti