I flussi migratori sono sempre esistiti, spinti nei tempi da necessità dapprima ambientali, poi di sopravvivenza etnica, razziale o religiosa, politica e culturale. Nell’era moderna si sono aggiunte altre motivazioni, come la ricerca di migliori opportunità di studio e di lavoro, una migliore qualità della vita, la ricerca di prospettive più ampie.
Che si tratti dei suddetti motivi, oppure, come da tempo accade alle nuove generazioni dei paesi industrializzati, del desiderio di confrontarsi con un’esperienza di vita che soddisfi il bisogno di conoscenza, il tema dell’identità e del proprio ruolo in una nuova comunità resta centrale e complesso da analizzare.
Sperimentazione
Scegliere di muovere le proprie radici per affrontare nuove sfide implica sempre la ricerca di un modo di vivere più adeguato alle nuove condizioni della nuova (o delle nuove) destinazioni: una vera sperimentazione!
Come osserva Zygmunt Bauman “lo sperimentare può essere percepito anche come un brancolare nel buio nel tentativo di mantenere intatta la propria identità”, un’operazione che in quella che il filosofo definisce “modernità liquida” per gli incessanti cambiamenti a cui va progressivamente incontro la società nell’età moderna, rafforza la convinzione che “l’unica costante è il cambiamento” e “l’unica certezza è l’incertezza”. Questo perché se cento anni fa essere moderni significava migliorare la propria vita, fino a perfezionarla tramite il raggiungimento di obiettivi ben definiti (un lavoro sicuro, una casa di proprietà, la possibilità di risparmiare per poter affrontare imprevisti), nella società postmoderna sembrano non esserci prospettive definitive ma piuttosto la tensione verso un “miglioramento all’infinito”. Bauman interpreta questa tendenza ad un miglioramento generalizzato come un’ossessione rispetto al proprio valore, dove il chiedersi compulsivamente “cosa posso fare?” sostituisce il più appropriato “come posso fare al meglio ciò che so già fare, ciò che devo o dovrei fare comunque?”
L’identità di expat: i nuovi pellegrini
Il mondo al di fuori dei propri confini nazionali è percepito oggi come ricco di opportunità, spesso una più allettante dell’altra, che rendono la ricerca del miglioramento molto attraente ma che di fatto, talvolta, ostacolano la possibilità di mettere le radici in un luogo e in un tempo, così che resti anche lo spazio alla ricostruzione della propria identità.
Percepiamo la nostra identità quando sentiamo un senso di appartenenza, quando ci riconosciamo negli usi, nei costumi, nelle pratiche sociali e nei comportamenti della società in cui viviamo, e soprattutto quando abbiamo la possibilità di comunicare efficacemente con gli altri tramite un linguaggio condiviso. Cosa accade quando diventiamo expat?
Nelle sue dissertazioni sulla società moderna Bauman cita spesso il sentirsi pellegrini nel mondo lontano da casa.
A differenza del turista, che una casa ce l’ha, chi decide di espatriare lascia la propria per qualcos’altro, con un certo margine di incertezza. Il turista si immerge nell’esperienza della diversità con curiosità ed entusiasmo, consapevole che il cambiamento che ne potrà derivare sarà minimo e comunque prevedibile; l’expat va invece incontro alla possibilità di percepirsi, metaforicamente, come un pellegrino: ovunque si trovi può sentirsi instabile, ancora in cammino, come se lo sforzo nel raggiungimento di un ipotetico obiettivo, ancora non ben definito, prevalesse sul guardarsi attorno e capire dove si trova, chi è e chi può diventare. I segnali delle nuove città che abita lo frastornano, a volte lo spaventano, gli usi e le consuetudini degli altri non sono così prevedibili come lo erano quando era indigeno tra indigeni, e può solo muoversi con circospezione e cautela per “capire la distanza tra sé e gli altri, distanza che definisce il sentirsi straniero e che dà agli altri il senso del nostro essere stranieri”.
Quali possibilità di movimento?
Come far coesistere la minaccia della terra straniera e il fascino della scoperta e dell’avventura?
Di fatto proprio questa incertezza, questa indefinitezza del nostro stare “altrove” rappresenta un’opportunità unica di avventura e di scoperta delle nostre potenziali risorse, destinate altrimenti a non emergere per mancanza di senso; tuttavia, l’imprevedibilità del nuovo mondo resta una variabile non controllabile.
Bauman dice che un’opzione sembrerebbe essere quella di diminuire il disagio allontanando la minaccia che gli indigeni del nuovo luogo possono rappresentare, isolandosi e coltivando solo le antiche abitudini; l’altra quella di immergersi in toto nella nuova società, senza chiedersi quanto le consuetudini e i nuovi comportamenti corrispondano al nostro sentire, o per meglio dire, alla nostra identità.
Nelle città industrializzate necessariamente persone estranee si incontrano, persone che non hanno un passato condiviso e forse neanche un futuro, ma certamente possono godere del presente e di ciò che la conoscenza reciproca può regalare.
Forse ciò che può avvenire “grazie” alla diversità e allo stare tra stranieri è il “mescolarsi alla vita che scorre” incontrando gli aspetti che possono incuriosirci, arricchirci, meravigliarci, come in una sorta di selezione basata sul sentire, e coglierli per integrarli nel nostro patrimonio identitario; e forse stabilizzare la distanza con ciò che riteniamo troppo lontano da noi può attivare una reciprocità che non può esimersi dal rispetto per l’altro e dall’altro.
Se ipotizziamo che proprio nella diversità risieda la possibilità umana della libertà, ecco che nell’incontro tra due diverse identità può emergere una terza possibilità che permette di evolversi, di arricchirsi con le molte tradizioni, le diverse convinzioni e i molteplici punti di vista. Ecco che emerge una terza via rispetto al sentirsi inglobati in un mondo nuovo e tanto diverso e rispetto alla auto-esclusione dalle occasioni relazionali di confronto sociale e culturale: l’interazione intenzionale con gli altri, senza aspettative specifiche ma aperta a ciò che può emergere sia nel senso dell’aggregazione che in quello della diversità. Ecco che l’identità personale si costruisce nel paese ospite gradualmente e con pazienza, come si costruisce una casa: partendo dalle fondamenta fino al soffitto, curando i dettagli e privilegiando la creatività.
Monica Cecconi
Psicologa e Psicoterapeuta