Avete mai sentito parlare di childless e childfree?
Questa distinzione viene fatta per distinguere chi ha scelto di non avere figli (free) da chi non ne ha la possibilità (less). Un continuum che va da chi ha sperimentato di tutto per realizzare il proprio desiderio di avere un figlio, pratiche di fecondazione assistita, altri tipi di medicina o percorsi di adozione e affido, e arriva a chi liberamente e consapevolmente ha scelto una vita senza figli. Nel mezzo c’è un range di possibilità che comprende anche chi è arrivato a constatare che è andata così.
Come terapeuta parto dall’esperienza di alcune donne che mi hanno chiesto supporto per affrontare un lutto che loro stesse non sapevano di stare vivendo. Queste donne sono arrivate da me nel momento in cui hanno preso consapevolezza che non avrebbero avuto figli, sarebbero state quindi childless.
Il dolore indicibile di essere childless
La perdita di un figlio è un evento talmente difficile da accettare che è indicibile. Abbiamo, infatti, vedovi e vedove, orfane e orfani, ma non c’è una parola per identificare la persona che subisce la perdita di un figlio.
E se lo stesso accadesse a chi i figli non li ha avuti? Per infertilità sociale, quella per cui non si danno mai le condizioni per mettere in cantiere un figlio, perché non c’è il partner giusto al momento giusto o il contratto giusto al momento giusto e così via… Oppure per infertilità fisica, dopo un lungo percorso di tentativi, o come epifania estemporanea. Non c’è differenza. Il momento in cui si entra in contatto con questa consapevolezza è da considerarsi un vero e proprio lutto. E per alcuni un lutto che impone la sua presenza ogni mese.
Un lutto che però non ha un riconoscimento sociale: non ci sarà prima un funerale e poi una tomba su cui piangere accompagnati dal conforto del supporto della nostra rete relazionale. Rituali funebri e luoghi di sepoltura attraversano tutti i tempi e tutte le culture perché necessari a quello che ora definiamo l’elaborazione del lutto, quel processo che ci permette di superare il dolore e dare un senso alla perdita.
Il perché la società abbia difficoltà ad elaborare il lutto di chi non ha avuto figli è materia per sociologi e antropologi, io mi occupo di ciò che accade nelle vite a seguito di questo lutto, di come ci fa stare, di cosa ci succede. Mi occupo di cosa comporta il mancato riconoscimento della condizione stessa del lutto nella mente e nel corpo.
Cosa accompagna il desiderio di avere un figlio?
Al di là della spinta alla conservazione della specie, decidere di mettere al mondo un figlio ha per ogni persona e ogni coppia un significato assolutamente personale e affonda le sue radici nel senso di identità più intimo.
Come al mio solito ricorro alle metafore usate per descrivere i figli per immaginare qual è il senso. I figli sono: dono, benedizione, progetto a lungo termine, compimento della coppia, pezzi di cuore, bastoni della vecchiaia, custodi dell’eredità, rami dell’albero genealogico e proiezione verso il futuro…solo per suggerirne alcune.
Il lutto, quindi, non sarà solo per il bambino non nato ma anche per quel senso dato alla propria genitorialità all’interno del proprio progetto di vita e di coppia.
Alcune persone mi raccontano del senso di inutilità percepito rispetto alla propria vita immaginata senza un figlio, oppure il forte senso di solitudine e insicurezza per il futuro che gli si prospetta. Per altri ancora prevale il sentirsi incapaci, indegni e colpevoli accompagnato dalla vergogna e il senso di colpa. A volte questo lutto si accompagna ad una vera e propria perdita del senso della propria vita.
E cosa succede quando questo lutto non viene riconosciuto?
Vi siete mai chiesti come mai di fronte a lutti e traumi alcuni sembrano uscirne quasi senza conseguenze e altri invece non si riprendono più?
La svolta risiede, secondo me, nel processo di rielaborazione dell’esperienza che riesce a farne la persona, di come la interpreta, il senso che le dà. Per fare un esempio, diverso sarà per chi percorre la via del senso di colpa da chi si sentirà vittima dell’ingiustizia. Il senso di colpa mi rende responsabile di ciò che mi accade facendomi sentire la vergogna e l’incapacità, mentre leggermi come vittima fa di me un oggetto in balia degli eventi con tutta la rabbia e l’impotenza che questo comporta. I vissuti di vergogna e rabbia potrebbero essere benzina alla base di quelle forme di sofferenza psicologica che rientrano sotto l’etichetta di lutto non elaborato. Queste sono solo due possibili letture, molte altre ne ho incontrate nel mio lavoro.
Se la rielaborazione è la premessa per superare traumi e lutti, per poterla intraprendere il primo step è darsi l’opportunità di parlarne, di riconoscersi una sofferenza.
Quando un lutto non è socialmente riconosciuto l’impossibilità di condividere questa esperienza può far sentire l’abbandono, la vergogna, la solitudine e tutta l’ineluttabilità della propria condizione senza però avere la possibilità di rivendicare la propria sofferenza.
Quello che può succedere…
Ciò che può accadere intorno alle persone che non hanno figli è che dal chiedere insistente degli altri ad un certo punto si instauri un assordante silenzio. Chi si ha intorno tace forse per imbarazzo o per paura di ferire e invece può venire interpretato come indifferente ed egoista. Se non è il silenzio, ad assordare possono essere i consigli e gli incoraggiamenti percepiti come vuoti e giudicanti, mentre possono essere dei maldestri tentativi di chi circonda di far sentire la partecipazione.
Possono cominciare le difficoltà a condividere occasioni di incontro con parenti ed amici, soprattutto con figli, aumentando così il senso di solitudine e non appartenenza. Si potrebbe cominciare a dedicare meno energie ad altri ambiti e progetti di vita perché quello che sembrava il più significativo è sfumato, riducendo ulteriormente la possibilità di sentirsi di vivere una vita piena e soddisfacente.
I membri della coppia possono isolarsi dagli altri ma anche l’un l’altro.
All’interno della coppia si può cominciare a far fatica ad immaginarsi un futuro insieme solo come coppia, si comincia forse a cercare un responsabile per questa sofferenza mettendo in discussione il senso di appartenenza. Quello che era un argomento di conversazione pieno di speranze e gioia comincia ad essere fonte di frustrazione e sofferenza col duplice rischio che la coppia ricopra col dolore ogni momento insieme o che decida di interrompere la comunicazione con l’altro.
…quello che possiamo far succedere
Se avete letto l’articolo fin qui avrete capito che dal mio punto di vista è importante riconoscere la propria sofferenza e condividerla con chi saprà ascoltare.
Così come andare alla ricerca di progetti che vi coinvolgano e vi facciano sentire vivi.
Se invece sentite che il vostro desiderio di prendervi cura, il vostro affetto e capacità educative sono risorse a cui non siete disposti a rinunciare, considerate che nella vita dei bambini ci sono figure altrettanto significative e importanti. Molti apprezzeranno di poter condividere l’esperienza di crescere i propri figli con qualcuno che stimano e a cui sono affezionati. Soprattutto quando si è lontani dalle famiglie di origine, dal supporto sempre necessario nel compito di crescita di figli, mancano nonni, zii e cugini con cui confrontarsi e relazionarsi oltre ai genitori. Un incontro di bisogni che potrebbe sorprendervi!
Per chi è in coppia, cercate di non interrompere la comunicazione col partner dando spazio a momenti di condivisione che vi facciano ricordare perché vi siete scelti come compagni prima che come genitori.
Nell’incontro con le donne di cui vi ho parlato, il riconoscimento del proprio lutto è stata la chiave di volta che durante il percorso ci ha permesso di immaginare nuovi progetti e nuovi desideri. Certo, ogni tanto ci diciamo che non è lo stesso, ma non è più un momento in cui sentirsi impotenti. È un momento da cui ripartire, non nel senso di una rassegnazione ma di una diversa possibilità!
Silvia Carattoni
Psicologa e Psicoterapeuta