Questa guerra a differenza di altre ci è entrata in casa ed è entrata nella stanza della terapia e nelle sue conversazioni. A portarcela in casa quotidianamente sono i media come mai in precedenza.
Paura, ansia, indignazione e rabbia si manifestano nelle parole di pazienti ma anche in quelle di chi incontriamo. Nonostante faccia stare male non riusciamo a rinunciare alle immagini, alle ultime sui movimenti delle truppe, a raccogliere notizie sulle violenze perpetrate e sul fiume umano carico di sofferenza che si sta allontanando dal proprio paese.
Mi sono chiesta come mai? Cosa significa rimanere costantemente in quel luogo di violenza? Qual è il senso di ore e ore di dirette televisive, lettura di post e aggiornamenti sui siti all news?
Andando oltre spiegazioni basate su strumentalizzazioni, audience, like e voyeurismo del dolore, nelle conversazioni con le persone dentro e fuori dalla stanza della terapia ho la sensazione che altre siano le spiegazioni che possano rendere ciò più comprensibile. Ovviamente non sono le uniche ma credo che molt* si potranno riconoscere in un paio di ipotesi dal punto di vista della persona e nei vissuti che molti di noi stanno provando.
La guerra ha aperto il sipario sulla minacce della terza guerra mondiale e l’uso dell’atomica come possibili, reali e vicine. Da qui nasce la necessità di mantenersi costantemente aggiornati come tentativo di fare fronte all’ansia e alla paura. Cercando una comprensibile rassicurazione informandosi il più possibile, come se avere tutte le informazioni reperibili permetta di provare ad anticipare eventi che ci potrebbero coinvolgere. Seguendo il detto Baconiano “sapere è potere”, cerchiamo di mantenere una sensazione di controllo su eventi percepiti come minacciosi e imprevedibili.
Ma questa guerra significa anche il contrapporsi di due modi di intendere ciò che è giusto. Informarsi diventa il necessario antidoto al senso di impotenza, che accompagna rabbia e indignazione, che quello che accade può far sperimentare. Inermi di fronte a quelle immagini con la consapevolezza di non poter fare niente di immediato per chi sta soffrendo, nasce la necessità di rendersi almeno testimoni di quella sofferenza. Se non si può lenire il dolore far sentire chi ne è vittima visto, ascoltato, raccontato come se ciò che non ha potuto fare la memoria possa fare la cronaca.
Per quanto difficili e scomodi queste emozioni, sentimenti e vissuti ci raccontano del nostro non essere indifferenti all’altro, del nostro sentirci parte di un tutto coinvolti nel destino di un unico mondo.
Silvia Carattoni
Psicologa e Psicoterapeuta