Quella volta che Djokovic non vinse il Grande Slam
e tutti gli vollero bene
Poco meno di 48 ore fa c’è stata una partita di tennis, la finale maschile degli US Open, che tutti gli appassionati aspettavano da tempo. Perché se Novak Djokovic avesse vinto, avrebbe ottenuto il Grande Slam, ossia la vittoria in un unico anno solare dei 4 tornei più importanti del circuito. Un traguardo prestigiosissimo e pazzesco, quasi mai raggiunto nella storia del tennis.
Djokovic non ce l’ha fatta.
Non sono mai stata una grande fan di Nole. Impossibile però non riconoscerne le incredibili doti tecniche, atletiche e mentali. Tra i 3 “mostri sacri” degli ultimi due decenni, credo sia difficile stabilire chi sia il più forte, se non sulla base di propensioni per uno stile di gioco o altre caratteristiche, ma pur sempre secondo preferenze personali, più che oggettive.
Per quanto in molte occasioni mi abbiano infastidita i suoi atteggiamenti, mi è dispiaciuto vederlo perdere, dal punto di vista dei meriti sportivi del suo percorso.
Però domenica, Djokovic ha ottenuto un traguardo forse ancora più significativo, anche se diverso da quello immaginato da tutti.
Per capire, serve una premessa. Nole non è stato amato dal pubblico quanto i suoi storici rivali, Nadal e Federer, e lui questa cosa l’ha sempre sofferta molto. Bramava per l’amore del pubblico, da cui ha sempre avuto grande riconoscimento per le sue doti, ma lui non era quasi mai il più sostenuto e ben voluto, anche per i suoi atteggiamenti a volte rabbiosi e stizziti. Ha sempre cercato di fronteggiare questo minor sostegno con il fare ancora di più, con un impegno incommensurabile e meticoloso, tanto da farlo sembrare a volte un “robot”. Ma non era mai abbastanza. Lui vinceva le partite più dure, rispondeva con colpi vincenti ai servizi più imprendibili, inventava giocate che non sarebbero state considerate possibili nemmeno sulla carta. Il suo avversario era comunque sempre più incitato e sostenuto, soprattutto se si trattava di Federer o Nadal.
Nella partita della vita ha perso, ma è successa una cosa incredibile: il pubblico tifava per lui.
È vero, i presenti volevano essere spettatori di un momento storico e il suo avversario non è un giocatore molto amato dal pubblico newyorchese (con cui non era stato carino in passato ma che, per inciso, in questa finale è stato un pessimo esempio di sportività). Comunque, queste ragioni per tifare il numero uno al mondo valevano all’inizio. Piano piano il pubblico presente ha iniziato a vedere uno spettacolo nuovo.
Non più Djokovic il “mostro” del tennis, ma Novak la persona. Le sue gambe erano pesanti per la fatica del torneo e della semifinale molto dura; la sua tensione era palpabile; le mani tremavano; le sue emozioni erano sempre più evidenti. Lo abbiamo visto umano. Ci siamo dispiaciuti per le sue lacrime e per la sua impresa mancata di un soffio. E gli abbiamo voluto bene.
A Djokovic questo affetto è arrivato tutto. Nel momento in cui, suo malgrado, è venuta fuori la persona nella sua meravigliosa vulnerabilità, il pubblico lo ha apprezzato più che in qualsiasi altro momento di cui io sia stata spettatrice. Ho sentito innumerevoli volte i cronisti sportivi commentarlo dicendo “non è umano”. E domenica, nel mostrarsi a tutti per esserlo, finalmente ha ottenuto il bramato “trofeo”. Non il Grande Slam. Ma credo che, sotto un certo punto di vista, questa sia una vittoria anche più significativa.
Che cosa mi trasmette questa storia? Una sensazione che spero arrivi anche a voi: sono anche le nostre “debolezze”, il nostro calore umano, i nostri sentimenti ed emozioni a farci sentire vicini agli altri e gli altri vicini a noi. Spesso molto più della ricerca di perfezione, di successo e approvazione tanto desiderati. Che ne pensate?
Sara Fornari