Eccomi qua a parlarvi di Squid Game. “Ancora?! Non se n’è già parlato abbastanza??!!!” direte voi, anche giustamente. Se siete tra quelli che hanno pensato così di fronte al mio incipit, sappiate che vi capisco. Si è già detto molto su questa serie, fin da poco dopo la sua uscita su Netflix. Potreste avere addirittura la tentazione di non proseguire nella lettura di questo articolo. Per amor di verità, devo però avvertirvi: a parte il solito spoiler alert, lungi da me aggiungere un ulteriore tassello al dibattito già ampiamente saturo sulla “diseducatività” o meno di questa opera. Tuttavia, essendo passato ormai qualche mese dalla sua diffusione in lingua originale – mentre ora è disponibile anche con il doppiaggio in italiano – forse adesso i tempi sono maturi per proporre delle riflessioni diverse.
Vorrei partire da una considerazione. Secondo me l’aspetto che ha reso così attrattiva questa serie, è lo stesso che l’ha portata ad essere così oggetto di dibattito: l’aver mischiato elementi attinenti l’infanzia alla violenza. Mi spiego meglio. Questo mix ha creato in molte persone un corto circuito emotivo non di poco conto: da una parte l’infanzia, associata spesso a ideali di purezza, innocenza, bontà; dall’altra la violenza, con i significati di brutalità, sopraffazione e crudeltà cui spesso si accompagna. I personaggi si trovano più e più volte a dover scegliere tra collaborare, per superare i vari livelli della sfida, e annientare l’altro per sopravvivere. Hanno dovuto scegliere tra fare squadra, essere solidali gli uni con gli altri, e schiacciare gli avversari per avere una chance in più di cambiare la propria vita. Uscendo per un attimo dalla serie, sono scelte che sicuramente alcune persone si sono trovate a dover fare, nel corso della propria vita. E non sono scelte facili da compiere, come potete ben immaginare.
Credo infatti che ciò che ha affascinato – e allo stesso tempo turbato – molti nella visione di questa serie, è stata la suggestione rispetto al compiere questo tipo di scelta a livello personale. A mio parere, per come è strutturata, la serie porta facilmente lo spettatore ad immedesimarsi con i protagonisti della storia, e a farsi alcune semplici – ma allo stesso tempo impattanti – domande: “E io… cosa avrei fatto in quella circostanza?”; “Come mi sarei comportato?”; “Cosa avrei scelto?”. E poi: “A chi mi sento più simile, tra i vari personaggi?”; “Chi sento invece, più lontano da me?”. Nella serie esistono vari profili, e non è detto che gli spettatori si sentano necessariamente più vicini ad uno soltanto di essi. Magari ci sono delle caratteristiche per cui si rivede di più in un personaggio, e per altre si sente più affine ad un altro. E non è detto che si tratti necessariamente di aspetti positivi. Questo è ciò che in parte contribuisce a scuotere lo spettatore, a dare un bello scossone, come se la serie gli stesse chiedendo: “E tu da che parte stai?”.
Queste domande, è bene chiarirlo, possono fare paura. Non sempre si può essere disposti a farsele. E soprattutto, non sempre si può essere disposti a rispondervi. E non perché necessariamente si rischierebbe di scoprire chissà quale aberrazione o abominio rispetto alla propria persona. Ma perché nel guardarsi dentro è facile incappare in qualcosa che non ci piace. La serie, in questo senso, spinge molto lo spettatore in quella direzione, quasi a volerlo portare a riconoscere i propri limiti.
A riprova di quanto non sia semplice avere questo atteggiamento verso se stessi, la serie ci mostra molto chiaramente gli effetti che ha sui personaggi il compiere queste scelte over and over again. Alcuni sono sconvolti, scioccati, altri letteralmente traumatizzati, altri ancora si sono invece galvanizzati di fronte al pericolo, incarnando perfettamente il ruolo degli aggressori riuniti in branco, salvo poi ritorcersi gli uni contro gli altri. A complicare ulteriormente la faccenda è il fatto che alcuni dei personaggi cui lo spettatore sarebbe più portato a immedesimarsi – come Seong Gi-hun e Cho Sang-woo – fanno uso dell’inganno per poter sopravvivere. E infatti dovranno fare i conti anche con questo, emotivamente parlando, per poter andare avanti.
L’impressione che ne ho ricavato, al termine della visione, è questa: è come se Squid Game avesse cercato di essere uno specchio per lo spettatore, per usare una metafora. Invitandolo a guardarsi dentro e a scoprirsi, per chi è e cosa prova. E non è un caso, secondo me, che molti adolescenti abbiano cercato di “replicare” in vari modi i “giochi” cui erano costretti i “concorrenti”. Porsi in situazioni limite, di fronte a scelte complesse, in cui la posta in gioco è molto alta e si rischia di perdere molte delle cose a cui si tengono, è uno dei modi con cui le persone provano a scoprire se stesse. Di rispondere alla domanda da cui siamo partiti: “E io chi sono?”. Questa domanda, come potrà facilmente immaginare il lettore, è centrale in adolescenza, periodo di squilibrio e di crisi quasi per definizione, in cui gli interrogativi su se stessi diventano sempre più pressanti, e le dinamiche relazionali giocano un ruolo primario per potervi rispondere. Proprio perché si tratta di una serie che estremizza molto sulla posta in gioco delle proprie scelte, non mi sorprende che abbia affascinato molti tra ragazzi e ragazze. A mio parere, l’interesse così acceso degli adolescenti verso Squid Game denota il desiderio di scoprire i propri limiti e provare a superarli. Un desiderio che, se ben sostenuto dalle figure di riferimento, può trasformarsi in audacia e coraggio.
A conclusione di questo articolo, vi propongo alcuni passi tratti dalla canzone di Battiato “Serial Killer” che, meglio di molte altre parole, riesce a rendere l’idea del perché – secondo me – questa serie abbia così tanto coinvolto e fatto parlare di sé.
“Non avere paura
Perché porto il coltello tra i denti
E agito il fucile come emblema virile
Non avere paura della mia trentotto
Che porto qui sul petto
Di questo invece devi avere paura
Io sono un uomo come te.”
Stefano Giusti
Psicologo