“Non ti disunire Fabio! Non ti disunire!”, dice Capuano a Fabio Schisa, il protagonista dell’ultimo film di Paolo Sorrentino È stata la mano di Dio, disponibile su Netflix. Il ragazzo, un po’ confuso, risponde: “Ma che significa?”. Ecco, questa è la domanda che molti si sono fatti di fronte alle parole del regista. “Schisa, non preoccuparti, non sei il solo a porti questo interrogativo” mi verrebbe da dirgli, quasi a volerlo rassicurare. “Come te – mi rivolgo sempre a lui – ci sono tante altre persone affamate di dare un senso a quelle parole così potenti”. Perché l’invito di Capuano, effettivamente, arriva dritto allo stomaco. Colpisce un punto cruciale, forse non solo del nostro Fabio, ma anche di chi in lui si riconosce, o si è riconosciuto per la persona che è stata in passato.
L’aspetto apparentemente enigmatico delle parole di Capuano si accentua anche per un altro fattore, e cioè che alla richiesta di Fabio lui all’inizio non risponde con chiarezza. Non viene detto precisamente che cosa non si dovrebbe disunire nel mondo interiore del ragazzo. In altre parole, a cosa dovrebbe prestare attenzione? Come può evitare di sfilacciarsi – come invece il regista aveva rimproverato alla giovane attrice di teatro, neanche tanto velatamente?
Un tassello che ci può aiutare ad arricchire il nostro mosaico arriva nel proseguo della conversazione tra i due: “Non sei stato lasciato solo…ti hanno abbandonato!”. Capuano entra quindi nel vivo della storia di Schisa, del suo racconto, forzandolo a entrare in contatto col dolore per la perdita dei genitori, avvenuta nel tragico incidente di Roccaraso.
Per fare cinema, secondo Capuano, Fabio non dovrebbe dimenticarsi di ciò che gli è successo. Non dovrebbe andare a Roma, per capire se è tagliato o no per diventare un regista. Non dovrebbe allontanarsi dalla terra in cui è cresciuto, Napoli. Non dovrebbe sfilacciarsi ricercando vaghe consolazioni e orpelli decorativi: non farebbero altro che offuscare la verità della sua esperienza. Non dovrebbe temere di avere qualcosa da dire. Perché qualcosa da dire ce l’aveva, Fabio, anche se aveva provato a nasconderla anche a se stesso. Ed è proprio qui, in questo punto della storia, che Fabietto diventa Fabio, quando cioè ha gridato a tutta Napoli, e a sè in primis, quel qualcosa che era rimasto dentro e che doveva essere raccontato. Perché alla fine, come dice Capuano, si ritorna sempre a sé stessi.
Succede a tanti, di avere la sensazione di non avere niente da raccontare. E succede ad altrettanti di cercare di nascondere il proprio dolore, piccolo o grande che sia. Proprio come aveva provato a fare Fabietto. Ed è comprensibile: non è facile entrare in contatto con qualcosa che ci ha feriti, farci i conti. Sarebbe come ammettere di doverlo portare con noi, che fa parte della nostra storia. E a volte non lo vogliamo, non siamo disposti a farlo.
Il dialogo tra Capuano e Schisa ci ricorda invece quanto raccontare qualcosa di noi possa aprire delle porte, delle strade che non avevamo considerato. A darci il coraggio di fare delle scelte rimaste in sospeso, dando fiducia al cammino che abbiamo di fronte. Fin tanto che quella storia rimaneva non detta, era come se a Fabietto mancasse di un pezzo, una parte fondamentale della propria esperienza e di se stesso, senza la quale non poter andare realmente avanti. Portandolo a vagare nella ricerca di qualcosa, senza sapere di preciso cosa.
Alla fine quel pezzo se l’è ripreso, se n’è riappropriato. Dandogli la forza di iniziare la sua nuova vita, non più da Fabietto, ma da Fabio. Facendosi cioè un dono: quello di sentirsi finalmente integro, unito.
Credo non sia un caso che le parole di Capuano risultassero inizialmente così misteriose e indefinite: per dare modo allo spettatore di ritrovare dentro se stesso quei pezzi, i propri pezzi, quelli della propria storia.
E dunque, chiunque tu sia, caro lettore, comincia a chiederti: “Che cos’ho da raccontare?”. E una volta che l’hai trovato, non dimenticartene…o come direbbe Capuano: “Non ti disunire!”.
Stefano Giusti
Psicologo e Psicoterapeuta