Il mio capo è un tiranno (st****o) e i clienti non capiscono niente (un c***o)
Oggi ho fatto la metà di quello che dovevo.
Oggi ho fatto il doppio di quello che dovevo!
Le ore non bastano mai eppure non passano.
Il mio lavoro è troppo noioso.
Il mio lavoro è troppo difficile!
Vi siete mai detti una di queste frasi?
Queste possono essere le due facce di come si racconta il burnout o come viene anche definito lo stress lavoro-correlato. Inizialmente evidenziato nelle professioni d’aiuto, questo concetto si è velocemente allargato un po’ a tutte.
Sentimento che può arrivare come un’onda anomala in un singolo episodio o più spesso crescere dentro di noi giorno per giorno, come la marea.
Un tipo di disagio rispetto al proprio lavoro che lascia tracce nel corpo e nella mente.
Diversi i sintomi fisici come emicranie, gastriti, insonnia o il suo contrario (ipersonnia), inappetenza o il suo contrario, ecc.
La mente invece lo esprime con mancanza di motivazione, nervosismo, difficoltà di concentrazione fino a stati d’ansia, forme depressive e attacchi di collera.
Non mi dilungherò sui sintomi, perché ognuno esprime il disagio in modo proprio. Più interessante è approfondire il perché ci accade questo.
Come siete arrivati a fare il vostro lavoro?
Ci sarà chi lo ha scelto e chi invece lo ha “trovato”.
Chi lo ha scelto ha probabilmente immaginato per sé un percorso professionale e lo ha perseguito negli anni, dal percorso formativo a dove ha indirizzato le proprie candidature, coerentemente con un obiettivo atteso. In questo caso si può andare incontro al burnout quando ciò che facciamo non è più in linea con quel progetto, con le nostre aspettative. Per esempio, ci si può rendere conto che la formazione ricevuta non rispecchia quanto viene richiesto, o che quella posizione richiede competenze che non si desidera acquisire. Oppure, può essere il contesto a non corrispondere a ciò che avevamo immaginato.
C’è invece chi ha scelto una posizione in funzione della facilità di ottenerla, o perché suggestionato da scelte di altri o per stretta necessità. In questo caso si può maturare ad un certo punto la consapevolezza di non aver veramente scelto e per questo trovarsi a non vivere più il lavoro come opportunità, ma come vincolo. Ci possiamo sentire costretti in una mansione che non ci piace, che contrasta addirittura con i nostri sogni, o trovarci in un contesto che mortifica le nostre qualità e capacità.
Spesso la domanda è: sono io o sono loro?
A volte però non è tanto la mansione a non rispecchiarci più, ma come ci viene chiesto di portarla avanti: il modo e i tempi.
Ci può venire chiesto un livello di prestazione maggiore di quello che ci sentiamo in grado di dare al momento, facendoci mettere in discussione il sentirci adeguati, in grado e capaci, e facendo vacillare il nostro desiderio di corrispondere le aspettative di colleghi e superiori. Oppure, al contrario, ci viene richiesta una qualità del lavoro che non rispecchia i nostri standard e non ci permette di eccellere, apprendere e confrontarci con il meglio.
Anche è il tempo è un aspetto cruciale, sia nel senso di non averne abbastanza per portare a termine il progetto su cui stiamo lavorando, sia che non ne resti per nient’altro della nostra vita privata.
Una dimensione che ha poi un ruolo centrale è la qualità delle relazioni con il gruppo di lavoro, infatti sentirsi parte di un progetto comune, avere la sensazione di poter condividere ed essere supportati può considerarsi quasi un antidoto a quanto detto poco sopra. Costruirsi un terreno relazionale fertile, su cui far crescere la propria esperienza professionale, motiva e permette di accettare anche le sfide più difficili.
Quando è l’organizzazione o il contesto in cui si lavora ad essere in discussione.
Com’è strutturata l’azienda in cui lavorate? Prevalgono flessibilità, comunicazione orizzontale e regole/procedure meno definite, oppure, al contrario, ha un apparato gerarchico, regole chiare e procedure precise?
Qual è la sua mission? Eccellenza, competitività, oppure collaborazione, senso etico?
Quali le policies, cioè regole scritte, e non, che governano aspetti come riconoscimenti e incentivi, ma anche le relazioni fra dipendenti e azienda?
A volte il burnout affonda le sue radici nel gap fra noi e questi aspetti sopra elencati. Non è quindi ciò che dobbiamo fare a non essere in sintonia con noi, ma il farlo con modalità, obbiettivi e regole che ci costringono in un abito che non ci piace, o che sentiamo troppo stretto o troppo largo.
In letteratura sono evidenziati fattori predisponenti individuali e di contesto, ma a mio avviso, la questione sta nella relazione fra la persona, la mansione che è chiamata a svolgere e il contesto in cui lo deve fare. In particolare, è il significato che attribuiamo al lavoro che ha un peso, il modo con cui io guardo al mio lavoro.
C’entra cosa ha guidato le vostre scelte professionali…
Volevate esprimere tutta la vostra creatività, dimostrare la vostra affidabilità, volevate raggiungere il prestigio magari testimoniato da ruolo e stipendio? Oppure vi ci ha portato il desiderio di sfidare voi stessi, nutrire la vostra intelligenza, esercitare il fascino della simpatia, dimostrare le vostre capacità?
Quando, per vari motivi, non è più possibile soddisfare ciò che ha guidato la scelta di un lavoro, è molto più facile sentirsi sopraffatti da tutto ciò che ruota attorno a quel lavoro. Ad esempio, le professioni d’aiuto (quelle in cui il burnout è stato studiato principalmente), sono spesso intraprese da persone per cui essere utili agli altri è il cardine della scelta della professione; probabilmente demotivazione, esaurimento e distacco intervengono proprio quando quel senso di aiuto e utilità per gli altri vengono meno. Ma qualcosa di simile vale anche per altre motivazioni alla base di una scelta lavorativa.
…ma anche la Sindrome dell’impostore, a volte.
C’è poi una forma singolare di disagio rispetto al lavoro, che in alcuni contesti può predisporre ad elevati livelli di stress, collegati al proprio ruolo professionale: la cosiddetta Sindrome dell’impostore. Descrive la sensazione, vissuta spesso da chi è in posizioni prestigiose e di responsabilità, di non essere all’altezza dei propri compiti, ma contemporaneamente di non poter ammettere i propri limiti e difficoltà, proprio in virtù del proprio importante ruolo professionale.
Cosa si può fare, quindi?
Se nel lavoro che fate non vi ci trovate più: chiedetevi cosa vi piace, vi riesce bene e vi interessa di quel lavoro e guardatevi intorno, alla ricerca di mansioni che vi permetterebbero di far emergere quelle parti, senza però costringervi in ciò che del lavoro attuale non vi va.
Se state facendo i conti con il senso di inadeguatezza: chiedetevi se attribuirlo ad una mancanza di competenze/strumenti, oppure se è una condizione che vi appartiene in generale? Nel primo caso c’è la possibilità di colmare la vostra formazione, in autonomia o chiedendo all’azienda. Nel secondo caso, forse la possibilità di confrontarsi con un professionista, può essere la strada migliore, perché il senso di inadeguatezza non è una condizione immutabile.
Per chi di voi sta invece intraprendendo una carriera, il mio consiglio è di informarsi approfonditamente prima di fare il primo passo, chiedendosi sempre: è questo quello che sto cercando? La prima cosa che viene ricercata è la motivazione, che non può semplicemente essere identificata con la necessità di uno stipendio.
Il consiglio della Psicologa
A mio avviso, dovremmo spesso chiederci: riesco (ancora) a dare un senso al lavoro che sto facendo? Mi permette di incarnare i miei valori? È il modo per realizzarmi come persona, per la persona che io voglio essere?
Se la risposta a una o più di queste domande è no, probabilmente è il momento di fare qualcosa.
Oltre il fumo dell’incendio, guardate la fiamma che brucia, prima di cercare di spegnarla, magari con scelte impulsive. Cercate di analizzare e comprendere cosa c’è effettivamente alla base del senso di demotivazione, magari facendovi aiutare da un professionista. Questo potrebbe permettervi di compiere scelte nuove e consapevoli ed evitare così di ripetere quella che vi ha condotto dove siete ora e che non vi sta rendendo felici.
Silvia Carattoni
Psicologa e Psicoterapeuta